Una sera di novembre, quando il furgone dell’Unità mobile si è accostato al marciapiede, D. si stava pettinando, con cura: con la mano destra reggeva il piccolo pettine marrone scuro e con la sinistra lo specchio rotondo con il manico di plastica nera. Poi ha sorriso e ci ha salutati stringendoci forte le mani. “Siete in anticipo”, ci ha detto. “Finalmente la pioggia si è interrotta, domani però pioverà di nuovo; le mie coperte sono ancora umide, ma stanotte andrà meglio”, aggiunge, indicando la pila con un paio di materassi, un plaid scolorito e una pesante coperta marrone, un sacco a pelo. I sacchi di plastica e le borse del supermercato delimitano il “suo spazio” sotto la tettoia. “Hanno cercato di rubarmi dei vestiti”, racconta D., “per fortuna mi sono svegliato in tempo”. D. ha poco più di 50 anni, ha occhi azzurri profondi, un fisico ancora muscoloso, ricordo di un lavoro faticoso ma di precisione, un lavoro perso da qualche anno ma che ricorda con orgoglio. “Sono elettricista, lavoravo nei cantieri”. Qualcosa poi è andato storto, non dice mai cosa. Ma D. ha perso quasi tutto in pochi mesi. Il racconto, che abbiamo sentito più volte, si interrompe sempre a questo punto. 

Questa “Unità mobile” è uno dei piccoli gruppi di volontari – quattro, cinque persone – della Associzione Fratelli San Francesco che ogni sera, a turno, in una zona diversa di Milano, incontra le “persone senza fissa dimora”, in coordinamento con le Unità delle altre associazioni di volontariato della città.

D. conta su di noi, ci guarda negli occhi quando parla, sorride molto. E racconta il suo quotidiano vivere. L’altra sera ci ha raccontato che è riuscito a farsi una doccia ma che vorrebbe cambiarsi i pantaloni, che molti passanti quel giorno gli avevano lasciato pezzi di pizza e tanti biscotti, come se si fossero tutti messi d’accordo, che gli dolgono un braccio e una spalla. È dallo sguardo diretto di D., diretto, a turno, negli occhi di ciascuno dei volontari, che si capisce cosa significhi “contare” su di noi. Per noi volontari è una piccola e intensa gioia, che si rinnova ogni volta. 

Avvertiamo, da quegli sguardi di D., come da quelli delle altre persone che incontriamo, che prendersi cura per qualche minuto di queste donne e uomini che vivono per strada significa soprattutto riconoscersi reciprocamente.

Riconoscersi come esseri umani in una comunità civile.

È un piccolo sforzo emotivo, psicologico e culturale per contrastare l’esclusione sociale, la solitudine forzata, la classificazione che semplifica e colloca le persone ai margini – quelle che troviamo a dormire sotto i porticati o sulle panchine dei parchi della città, che chiedono un aiuto sedute addossate al muro accanto a una vetrina luminosa – le colloca tutte dentro una definizione stereotipata: donne e uomini “senza”. Senza casa, senza lavoro, senza dignità, senza affetti.

Invece no. Gli occhi di D. e gli occhi di molti con i quali i volontari delle notti milanesi entrano in contatto, i piccoli dialoghi, le brevi storie che ci raccontiamo, nel caldo afoso di luglio o nel gelido inverno, queste prove di conversazione sono le forme rappresentative – piccole ma concrete – di affetti, di frammenti di storie differenti, di speranze, di ricordi, anche di paure, di rabbia, di disperazione e rimpianti e sensi di colpa. Di un’umanità nella quale, appunto, per qualche minuto, misteriosamente ci riconosciamo tutti.

Certo le notti dei volontari delle Unità mobili sono anche piene di persone che dormono all’angolo di una strada e che non svegliamo, di uomini devastati dall’alcol che non sollevano nemmeno la testa, di donne così rabbiose che ci scacciano in malo modo, di giovani così preoccupati di come sopravvivere che chiedono, pretendono con arroganza, una coperta e un paio di pantaloni e che quando ormai le ceste sono vuote, se ne vanno borbottando parole avvelenate. Lo sappiamo, sappiamo che non siamo per strada con la pretesa di “salvare il mondo” o di salvare anche solo qualcuno. Sappiamo che vivere da “senza fissa dimora” è un inferno che non è in nostro potere riscattare. Il nostro è un piccolo aiuto a queste persone ma è anche un grande regalo a noi stessi.

Il riconoscimento, le parole, l’ascolto, incorniciano tutto il resto: il cibo che viene distribuito, il tè caldo, le giacche e le coperte, le indicazioni pratiche su come ottenere assistenza in città. E questo riconoscimento, che, è bene ribadirlo, è sempre riconoscimento reciproco, regala ai volontari, a ciascuno in modo diverso – nella consapevolezza del grande freddo sociale del quale non dimentichiamo mai cause e conseguenze – conoscenze ed emozioni che contribuiscono a dare più senso alla vita.

Luigi Gavazzi

leggi altri articoli