Le domande necessarie per capire le vite degli altri

Questa volta vorrei riflettere sulle domande. Le domande, quando sono sincere e pronte ad accogliere le risposte, avvicinano persone apparentemente distanti, favoriscono il reciproco riconoscimento e la compassione – cum-patire –, la partecipazione alla sofferenza o ai sentimenti dell’altro.

Le domande vanno fatte da vicino, vanno curate, possono formare relazioni e le risposte vanno ascoltate davvero.Una grande amica, che ci ha lasciati alcuni mesi fa, mi diceva sempre che è meglio una domanda che sembra indiscreta piuttosto che lasciare qualcuno da parte, lasciarlo senza domande. Non fare domande spesso significa lasciare qualcuno solo.

Una notevole riflessione sulle domandi si trova in un bel romanzo uscito in Italia nel 2015. Si intitola “Voci del verbo andare”, l’autrice è Jenny Erpenbeck (nata nel 1967) ed è pubblicato da Sellerio.

Il protagonista, Richard, decide di preparare una specie di questionario che lo aiuti a conoscere delle persone che gli sembrano estranee: sono rifugiati africani, ospitati in un edificio di accoglienza improvvisata a Berlino.

Richard è un professore universitario in pensione, è solo, nei suoi giorni ricorda la moglie morta da poco e anche un’amante del passato. Si tiene attivo, gira per la città e rimane stupito davanti a questi ragazzi in arrivo dalla Nigeria, dal Niger, dal Ghana, giunti in Europa alla ricerca di una vita migliore e in fuga dalla miseria e dalla violenza. Richard vive in questi nostri anni incerti, gli anni dell’ostilità impaurita davanti a chi arriva nei paesi ricchi.

Richard dunque prepara le sue domande dopo aver letto parecchio, i giornali, le riviste ma soprattutto i libri, gli atlanti: si prepara, per conoscere.
Cito direttamente dal libro di Erpenbeck (è una citazione dalle pagine 56-57):

“Per capire in che cosa consista il passaggio da una vita quotidiana interamente occupata e prevedibile alla vita quotidiana aperta in ogni direzione, esposta per così dire alle correnti, ossia quella che conduce un profugo, Richard deve sapere come stavano le cose all’inizio, come stavano a metà e come stanno adesso. Là dove la vita di una persona confina con l’altra vita della stessa persona, deve pur rendersi visibile il passaggio che, ad un esame attento, di per sé non è nulla.

Lei dove è cresciuto? Qual è la sua lingua materna? Quale religione professa? In quanti eravate in famiglia? Com’era l’alloggio, la casa in cui è cresciuto? Come si sono conosciuti i suoi genitori? C’era la televisione? Dove dormiva lei? Che cosa c’era da mangiare? Da bambino qual era il suo nascondiglio preferito? È andato a scuola? Che vestiti indossava? Avevate animali domestici? Ha imparato un mestiere? Ha già messo su famiglia? Quando ha lasciato il suo paese? Perché? Ha ancora contatti con la sua famiglia? Qual era la sua meta quando se ne è andato? Come ha preso congedo? Che cosa ha portato con sé quando è partito? Come si immaginava l’Europa? Che cosa c’è di diverso? Come trascorre le sue giornate? Che cosa le manca di più? Che cosa desidera? Se avesse dei figli, e crescessero qua, che cosa racconterebbe loro del suo paese d’origine? Riesce a immaginare di invecchiare qui? Dove vorrebbe essere sepolto?”

Dovremmo tutti avvicinare i rifugiati, i migranti, i senzatetto trascinati per strada da chissà quale storia, le persone che vengono a chiedere aiuto, avvicinarli e provare fare le nostre domande. E poi ascoltare rispettosamente le loro risposte. Prima di dire qualsiasi altra parola.

Luigi Gavazzi

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